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ZION

SFATARE I MITI

A volte nella vita si vanno a ricercare dei limiti.

Limiti fisici, limiti psicologici, limiti sociali.

Zion è uno di questi ultimi. Un posto famoso, ma solo ad un certo “livello”. Un bel posto indubbiamente. Ma ne conosco decine di più belli.

Un posto con grandi pareti, dove tutto è duro e sostenuto, ma altrove ce ne sono altrettanti. Qua la roccia è discreta: un’arenaria poco lavorata e molto verticale. Non si sfalda, almeno non sempre. Gli appigli, quando ci sono, sono spesso pieni di sabbietta fine che a pulirla si riforma. L’arrampicata è quasi sempre un bel ravano. Conosco decine di posti dove tutto è più bello.

Ma arrampicare a Zion non è come arrampicare in uno di quei posti.

Anche se non fai le vie dure, anche se non ti restano dentro che bestemmie e sbuffi ad ogni passaggio ecco che si lo puoi dire:

ho arrampicato a Zion!

Ho messo anche questa tacca sul manico del fucile. Un’altra figurina. Una super valida! Cosa non fa la fama di un posto. Ti fa viaggiare 24 ore, cambiare 3 aerei per arrivare in un posto e poi passare il tempo in sosta a dire che belle le vie del Grill.

Resta la soddisfazione di esserci stato. Di esser uscito dalle vie.

Ma forse non ho più gli anni per accontentarmi di questo.

Dopo 30 anni di alpinismo e 1000 e passa salite su roccia le figurine non bastano più.

A Yosemite quando arrivavo in sosta distrutto pensavo solo: che figata!

Come in altre decine di posti al mondo che ho avuto la fortuna di vedere.

A Red Rocks l’arenaria e il panorama ti lasciano estasiato ad ogni tiro, ad ogni passo.

Da Montserrat dopo 5 giorni di pioggia battente senza aver fatto nulla son partito verso casa entusiasta con solo la voglia di tornare e provare.

Qua mi rendo conto che è solo il duro per il duro …. Per dire: ho fatto.

Ecco si la linea. Le linee di Zion sono notevoli. La fessurazione verticale della roccia crea linee da brivido. Potresti mangiartele con gli occhi. Ma qua non si fa merenda.

Forse mi manca il livello.

Ma bello e brutto non hanno livello.

Bela rampa (Paklenica) è magnifica. Anche se la fai slegato e in scarpe da ginnastica sono 200 metri di calcare che danno un senso al verbo arrampicare.

Qua è un’altra cosa.

Qua magnifico è, finita la via, scendere.

30 aprile 2010

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COMPRO IL MIO TEMPO

 

 Con un espressione di importazione italiana, che qua da noi si usa molto poco, fino a poco tempo fa potevo definirmi un paraculo. Di certo non sono mai stato uno che ha passato il suo tempo a coltivare la nobile arte del lavoro. Fin da ragazzo ho cercato soddisfazioni in altre attività meno considerate socialmente e dal rendimento economico sicuramente meno proficuo, ma molto più avvincenti.

Oggi, anche se nessuno paga le mie spese, né le voluttuarie, né le indispensabili, anche se la casa dove vivo è mia e non ho rate per l’automobile, il mio orario di lavoro è tale per cui i sorrisini e le battutine in merito si sono sprecate e si sprecano da parte di amici, conoscenti o semplici contatti occasionali sulla mia volontà di lavorare.

 

Poi un giorno, poco tempo fa, leggendo un quotidiano ho trovato un articolo interessante. Parla di un uomo che ha mollato tutto. Non uno spiantato come me. Un manager pare. Uno di quelli da 14 ore di lavoro al giorno. Di impegni, di denaro gestito. Di soldi sul conto corrente. Parla di un uomo stufo che un giorno decide che basta, che non ne può più. Che non è vita. Prende e molla tutto. Inizia a girare il mondo in barca a vela. E non è il solo. Sono in tanti così. Non tutti che girano il mondo in barca a vela, ma tanti che rinunciano a carriera e posizione, al denaro e agli impegni. Al successo. Rinunciano del tutto o solo in parte al loro reddito, diminuiscono il tempo che dedicano alla loro occupazione, oppure la cambiano per una meno redditizia, ma dal volto più umano. Rinunciano a quella che per questa società deve esser la ragion di vita di ognuno: produrre, consumare e guardar la televisione. Rinunciano al denaro in cambio di tempo. Tempo per vivere. Tempo da dedicare a se stessi. Questo fenomeno pare sia diventato rilevante nel mondo occidentale. Tanto rilevante da avere un nome: DOWNSHIFTING. Tanto da trovarlo su wikipedia e, con una semplice ricerca in rete, vengono fuori tanti link, blog, ma anche articoli su giornali di gran tiratura. E non solo. Si trovano altri articoli, altre definizioni, si trova la settimana del downshifting… basta cercare.

 

Però… Pensavo di essere un paraculo e invece sono un rappresentante, forse atipico, di questo movimento chiamato downshifting. Un movimento la cui codifica trova le sue origini negli Stati Uniti, probabilmente nel 1994, (Trends Research Institute di New York) e pare conti ormai milioni di persone. Persone unite dalla voglia di maggior libertà e maggior tempo da dedicare a se stesse. Che non si conoscono, né si conosceranno mai. Che non marceranno mai assieme, ma che sono un qualcosa di troppo anomalo nella nostra società per non pensare che, forse, troppe cose non vanno bene nel mercato globale e nel capitalismo sfrenato.

 

L’amore per la montagna e l’alpinismo in me è sempre stato troppo forte. Uno di quegli amori in cui il compromesso è difficile. Compromesso fra il lavoro che ti dà i mezzi e il tempo che ti fa andare in giro. Da giovane è facile scegliere il tempo, ma poi la vita incalza. La casa, l’auto e tante altre cose da costruire… Alla fine anche per me con la maturità è arrivato un lavoro normale: cartellino, orario e soldi, pochi, ma indispensabili per costruire un futuro e a cui all’inizio non si può rinunciare.

 

All’inizio no di certo, ma poi… è sempre così? Poi le cose indispensabili un poco alla volta si mettono via: la casa, la sicurezza del futuro … ad un certo punto ci sono. Allora è il momento delle scelte. Una casa più grande? Vacanze lussuose? Telefonino all’ultimo grido? Stress, vita di corsa, tante cose materiali, spesso inutili o comunque superflue, cose che non riempiono il vuoto della tua vita, oppure tempo libero?

Alcuni anni fa ho rinunciato, assieme alla mia compagna di allora, ad un avanzamento di carriera; ho rinunciato ad una parte non indifferente del mio già magro stipendio e ho iniziato una vita diversa. Una vita in cui la montagna e l’alpinismo fossero allora e lo siano ora centrali e non secondari. Non solo nella mia testa, ma anche e soprattutto nel mio tempo, nella mia esistenza. Vivere un alpinismo a tempo pieno o quasi, senza essere un professionista. Senza fare la guida. Senza avere le stellette. Senza essere un fuoriclasse pagato per mostrarsi pieno di marchi e pubblicità. Continuare la mia umile vita di medio e mediocre alpinista, girando e scoprendo, ma avendo a disposizione tanti giorni in più. Giornate da impiegare per scoprire il mondo che mi circonda e porzioni di mondi più lontani. Senza l’assillo del week end, senza l’incubo di tornar a casa. Potersi fermare a guardare i tramonti. Aspettare le albe. Addormentarsi e svegliarsi col sole e il canto degli uccellini.

 

Sono seguiti anni molto intensi di scoperta, in cui le giornate in montagna sono state tante, potrei dire tantissime. Ma non lo voglio dire. Non tutte intense. Anzi. La meditazione spesso è stata dominante rispetto alla prestazione ed alla difficoltà. Per assurdo in 3 anni ho perso mediamente più di un grado in roccia. C’erano troppe cose da vedere in giro per fermarsi a tirar prese. E quello che è stato più importante era lo stare in giro. Non importava dove si era, l’importante era star fuori. Non importava il meteo e nemmeno la performance fisica, troppo spesso legate a stress e frustrazioni della vita normale. Quelle giornate feriali fuori stagione passate sulle Dolomiti senza incontrare essere umano, senza l’assillo di tornare a casa. Qualcosa di sublime.

 

Naturalmente ogni medaglia ha il suo rovescio. Il tempo libero non te lo regalano. La vita costa. In anni di recessione economica la vita costa ancora di più. E anche andare in giro costa. Costa il materiale. Costa il carburante. Ogni spesa e ogni scelta va ponderata con intelligenza perché non si può rischiare di arrivare a fine mese e sforare il magro bilancio. Certo dietro a questa scelta c’è un lavoro sicuro, c’è uno stipendio non da fame, anche se basso. Ci sono comportamenti radicati negli anni precedenti, anni di spese e gestione della vita oculata, da brava formichina e non da cicala. Sono scelte anche di rinuncia. Alle spedizioni innanzitutto. Ai materiali superflui. All’uso delle cose fino alla loro morte naturale e non alla rottamazione per moda. C’è anche la possibilità di tornare a lavorare a tempo pieno, se mai ce ne fosse la necessità. Non è stato un salto mortale senza rete. Ma è stato comunque un bel salto, una sfida a se stessi e al mondo che ci circonda.

 

L’entusiasmo e l’ironia di tutte le persone che incontro, o quasi tutte, per questa scelta e questa vita si spegne di brutto quando alla bellezza del tempo libero si contrappone il costo dell’operazione. Quando si va a quantificare quanto costa questa scelta. E diventa tangibile la rinuncia materiale. Alle cose grandi e alle cose piccole della vita. Non ci sono solo le spedizioni. Ci può essere anche la maglia sdrucita marca xy o il caffè al bar che fanno la differenza.

 

Però certe scelte alla fine non hanno prezzo. Quando si ha dentro una passione smisurata verso qualcosa di grande, di profondo e di immenso che hai dentro e che invade e pervade ogni fibra del tuo essere, come l’alpinismo, ecco che sapere che quando il sole sorge il giovedì mattina bruci un biglietto verde e ti giochi la possibilità di scegliere se alzarti e arrampicare o continuare a dormire è qualcosa di sublime che non varrà mai nulla di materiale su questa terra.

 

Ripenso a volte alle letture della mia gioventù, a quando Karl * parlava delle sue settimane di ferie non pagate, ai commenti dei suoi colleghi…

 

Questa riflessione la voglio dedicare a tutti coloro che sognano le montagne da dietro i vetri di un ufficio o fra le mura di una fabbrica.

 

A volte nella vita bisogna provare………………

 

 

·          * Reinhard Karl “Montagna vissuta tempo per respirare”

 

12 aprile 2010

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sogno del gran scozzese – val daone

IL SOGNO DEL GRAN
SCOZZESE

4 SALITA 1991

Strano nome Val Daone, fa
subito venire in mente lo yogurt che, fresco e puro, ha soppiantato in noi
giovani climber la pancetta del nonno, così come la quiete di questo posto
sembra mettere sulla luna gli scempi ed il caos del turismo di massa.

Sono appeso alla groppa
del Gran Scozzese e, mentre mi riparo dalla grandine di ghiaccio che Bubu mi
riversa addosso nel suo lento progr
edire, ripenso a questa valle ed alle soddisfazioni che mi sta dando. La
cortesia del Placido ed il suo entusiasmo per i cascatisti; i suoi occhi che
brillano nel vedere 3 ragazze venute da così lontano per arrampicare tutte
insieme su queste cascate.

Innumerevoli colate,
grandi e piccole, facili e difficili, che lui conosce a menadito dal racconto
di tutti noi che le saliamo. Ricordo i complimenti dei taglialegna che
sospendendo il loro lavoro applaudono Bubu sul passaggio chiave della
“Bocia”.

Seguo la fettuccia rossa,
mia naturalmente, che Bubu si è fatto sfuggire di mano 45 metri più in alto.
Con un unico balzo sbatte sulla cengia a metà… parete e scompare nel vuoto
sottostante. Ricomparirà ancora, 200 metri più in basso, scivolando lentamente
sul conoide di neve che porta all’attacco.

Non fosse per queste viti
di acciaio conficcate nel ghiaccio a cui sto appeso come un salame o per il
lago beffardamente calmo, là sotto, che ti invita ad una nuotata, penserei di
essere in Lavaredo, sulla Cassin, con tutte le sue soste volanti, immerso come
sono in un vuoto difficilmente riscontrabile nelle salite su ghiaccio.

Ho girato una settimana
per questa valle, ma fin dal primo momento il pensiero si è rivolto a lui, a
questo Gran Scozzese che, come un fantasma, usciva da ogni trafiletto scritto
sulla Val Daone.

Visto quasi di sfuggita il
primo mattino e poi osservato, studiato, fotografato mi è rimasto
ossessivamente impresso nella sua spettacolare linearità…. Non si può non
restare incantati dinanzi ad una simile estetica. Diritto, elegante, sornione,
come le sue storie raccontate con fervore dal Placido alla sera. La storia
della prima salita con un filo di ghiaccio, avvenuta durante il
“meeting”, o la storia di chi è sceso alle 10 di sera con gli occhi
sbarrati, di chi ha dimenticato il casco in discesa………Aloni di leggenda
per una cascata formidabile, come pensavo ce ne fossero solo in Canada o in
Norvegia.

Stiracchio le gambe ed
inizio a togliere la sosta.

Ora tocca a me. Fra 30
minuti e 40 metri avrà superato il tratto chiave del Gran Scozzese e la mia
voglia di difficoltà…, di
esposizione, di fatica e di freddo per questo inverno sarà…
sicuramente diminuita.

Seduto sul ciglione guardo
dall’alto la valle inondata dal sole. 6 ore prima nel freddo del mattino ero là
sotto, vicino a quel lago che mi chiama sempre ad una nuotata irrealizzabile.
Rilassato ripenso a questo magnifico viaggio in punta di ramponi, attirato come
un marinaio dal canto di questa sirena; pazzo d’amore per una linea di acqua
gelata che mai avrei sperato di vedere. Diritto e verticale. 3 tiri di corda
sospeso sull’effimero dell’acqua congelata. 120 metri di straordinaria intensità…
fisica ed emotiva.

Al tramonto, alla base,
ritrovo la fettuccia rossa ed una luna piena che si specchia nel lago e che
guiderà i nostri passi verso nuove avventure.

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monte bianco pilastro rosso del brouillard

PILASTRO ROSSO
DEL BROUILLARD VIA BONATTI


13 luglio 1991

Quota 3650,
Colle dell’Innominata. Fra le nuvole ormai nere che ci avvolgono, come in un
incubo, si materializzano davanti a me i sogni e le paure delle letture
giovanili.

Vedo la
Blanche, il Pilier d’Angle e più sotto il ghiacciaio del Freney con i suoi
mille crepacci. Sto per essere sorpreso da una bufera nel cuore del Bianco,
come Bonatti o Desmaison. Ma questa volta ci sono io in mezzo! Ed il bivacco,
punto grigio nel granito rosso, è troppo lontano….ancora.

Siamo alla terminale.
La neve fradicia e friabile cede sotto il nostro peso. La visibilità è scesa a
zero. L’aria è carica di elettricità. Una piramide umana e Bubu è su, sul
pendio di ghiaccio nero e roccette che porta al bivacco Eccles. Salgo anch’io,
tirato di peso dalla forza del mio amico, che pazientemente nelle ore
precedenti, sotto un sole da favola ed un caldo estenuante, mi ha convinto a
proseguire su per la morena prima ed il ghiacciaio poi, vincendo con una
dialettica che nessuno mai gli riconoscerebbe la mia riluttanza e la mia
stanchezza.

Inizia la
bufera: pioggia, vento e poi grandine e fulmini. Tanti fulmini. Sul pendio
scendono rivoli di acqua gelata che ci inzuppano i vestiti. Vedo un fulmine,
veloce e preciso, centrare la Punta Innominata, grande e meraviglioso
parafulmine della natura. L’elettricità fa rizzare i capelli. Non ho più
stanchezza addosso e neanche paura. Anni di esperienza escono dai miei nervi e
dal mio corpo. Voglio arrivare al bivacco! Iniziamo a correre su per il pendio,
fra sassi e ghiaccio, senza vedere la meta, con i fulmini che ci sfiorano.
Abbandoniamo zaini e piccozze per essere più veloci, per non attirare i fulmini
o forse solo perché il nostro cuore pulsa pazzamente per la fatica e la quota.
Eccolo! 5 metri alla nostra sinistra. 5 metri di ghiaccio vivo ad 80° battuto
da piccole ma insidiose valanghe. Non abbiamo più le piccozze e solo io ho i
ramponi ai piedi.

Non passeremo
mai così. Una sola speranza, sopra di noi, ancora più su il vecchio
bivacco…piccolo…con i vetri rotti forse…

Un’altra folle
corsa fra fulmini e valanghe e siamo dentro.

Sono sfinito e
fradicio.

Alla prima
schiarita giù di corsa passando per un’altra strada; recupero lo zaino ed entro
nel bivacco. Breve riposo. Ora Bubu deve uscire di nuovo, con i miei ramponi
per recuperate il resto del materiale. 10 minuti in cui ogni 30 secondi urlo la
mia disperazione al vento, per guidarlo indietro; perché restare da solo in
questa scatola… nella bufera…

Il giorno dopo
il sole è splendido; 20 cm di neve nuova imbiancano la montagna, ma il pilastro
è là, bellissimo.

Il canalone
iniziale, poi il diedrino d’attacco dove la corda si incastra e devo salire
slegato con gli scarponi. Poi il sole di nuovo e le scarpette leggere e su,
sempre più su, fino in cima…in cima al Pilastro Rosso. Le doppie non vogliono
scorrere e si incastrano un paio di volte. Ma poi recuperiamo tutto, corde,
scarponi, zaini. Sono sfatto. Perdo tre volte la cioccolata della merenda e per
tre volte la recupero più sotto; alla fine riusciamo a mangiarla e l’ultima
doppia ci deposita sul ghiacciaio.

Nelle ombre
della sera la Val Veny splende 2500 metri più in basso, meravigliosamente
verde.

Sono distrutto
dalla gioia, dalla fatica, dall’emozione, dalla disidratazione, da me stesso.
Ringrazio Bubu ed il cielo azzurro del tramonto….Forse ho vissuto il mio
giorno più grande.

Mi sveglio di
soprassalto: sta nevicando a larghe falde. Sento dei passi, due ragazzi si
ritirano dal Pilone. Strano trovarsi così alle 5 del mattino a 3850 metri
durante una bufera e parlare delle Dolomiti, e della Brenva, come in un
salotto. Il mal di testa che mi opprime da due giorni non accenna a placarsi.
Vedendo il casco di Bubu ci chiedono se siamo tutti e 2 Aspiranti. Io? Io
aspiro solo a tornare a casa!

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NATALE IN SPAGNA

NOCHE BUENA AL CALOR DE ESPANA (NATALE IN SPAGNA)

Un tozzo scoglio ormai nero nel controluce dell’alba. Le luci di una cittadina davanti e il mare illuminato dal sole alzante dietro. Questa foto a tutta pagina è entrata nella mia memoria. Anni fa. Non ricordo bene quando. Erano gli anni ottanta. I primi anni ottanta. Io iniziavo la mia vita alpinistica, con un imprinting fra il classico e il moderno e con una gran voglia di girare le montagne del mondo, per andare a conoscere l’alpinismo e le salite che ne hanno fatto la storia. Momenti di alpinismo. Questa la rivista. Pubblicazione annuale dell’allora mitica, e unica rivista di alpinismo nazionale, “La Rivista della Montagna”. Quell’anno proponeva un articolo sul sud della Spagna. Posto ideale per le vacanze di Natale.

Si credeva ancora, allora, che al di fuori delle alpi non esistesse nulla o quasi. Nulla comunque che meritasse un viaggio, ne come posti ne come alpinisti. Tranne le grandi montagne della terra. Ma già il cambio di mentalità e il proliferare delle comunicazioni planetarie portavano voce di luoghi dove l’alpinismo stava vivendo una vita propria. Luoghi dove si sviluppava autonomamente un alpinismo di ricerca e di risultato che non aveva nulla da invidiare ai posti famosi delle Alpi. Certi luoghi, che noi andavamo a scoprire allora, sono poi diventati famosi e gettonati, sull’onda di imprese e personaggi che li hanno portati alla ribalta. Altri posti sono rimasti nell’oblio per noi italiani e per le nazioni alpine in genere, chiuse nella loro opulenza di un lusso di abbondanza di pareti di ogni tipo e nella arroganza di esser i depositari del sapere assoluto. Non c’è stato nulla e nessuno che ha portato alla scoperta, mediatica e fisica di certi luoghi.

Dopo una vita passata guardando l’est ecco che il nuovo, per me, si trova oggi ad ovest. Quell’articolo ha resistito nella mia libreria per 25 anni. Ha resistito a traslochi, eliminazioni drastiche della massa cartacea dell’archivio quando lo spazio esiguo della mia abitazione ha imposto riduzioni ed eliminazioni. È rimasto là. Da solo, strappato dal resto delle pagine che componevano la sua rivista, di cui ricordo il nome ma non la data.

Però ha continuato a farmi sognare. Ogni tanto lo guardavo Mi capitava fra le mani, per caso, mentre cercavo informazioni su altri luoghi. Ogni volta me lo leggevo di nuovo. Leggevo nomi di posti che non ho letto da nessun altra parte. Nomi di persone che solo raramente ho trovato nelle cronache e nei racconti. Continuavo a guardare le foto, poche e poco “belle”, come lo stile austero delle riviste di allora imponeva. Ma intuivo che dietro quelle poche foto, quelle scarne righe si doveva celare un mondo fantastico che mi attraeva. E poi c’era la foto a tutta pagina. Quel Peňon d’Ifach stagliato contro il mare Mediterraneo che ammaliava come una sirena.

Alla fine come ogni sogno cullato a lungo nel cassetto il momento di trasformarlo in realtà è venuto. Oggigiorno i chilometri si annullano grazie ai voli low cost del turismo del XXI secolo. Si arriva prima in Spagna e a costi decisamente inferiori che andare sulle alpi a fare qualsiasi vacanza normale.

E allora si decide di partire. Titubanti. Poca documentazione. Poco e succinto l’aiuto dato dalla ricerca in rete. “San Google” dà poche pagine sull’alpinismo nella zona. Poche ma sufficienti a far sognare. Poche ed insufficienti per muoversi con sicurezza. Ci sarà da scoprire e imparare giorno per giorno l’ambiente che ci circonda. Abbiamo diciotto giorni di vacanza ma decidiamo di spenderne solo dieci, la paura di non trovare un riscontro reale ai sogni è tangibile. La nostra scelta di vita ha privilegiato il tempo libero al lusso economico. Ma il tempo costa, e costa molto caro. Il denaro è poco e la paura di spenderne a vuoto tanta. E questo ci condiziona questa volta. Nel pieno di una generazione alpinistica molto attenta a risultato e prestazione noi continuiamo a vivere come trent’anni fa. Molto tempo in montagna. Molti chilometri e la voglia di scoprire sempre posti nuovi, per capire la storia che ha portato ai nostri giorni. Di prestazioni non se ne parla ma la voglia di scoprire, conoscere e girare è rimasta intatta al passare degli anni. Un centinaio di salite nel 2007 e solo una puntata sulle Giulie, le montagne di casa la dicono tutta su come intendo la montagna e l’alpinismo.

Abbiamo poche idee per la Spagna, due salite su tutto e tanta voglia di scoprire. E di immergerci nel sole dell’inverno caldo di Alicante. Un problema burocratico ci costringe a rinviare la partenza di un giorno. Arriviamo e piove. Non una pioggerellina sottile. Piove alla grande. Le strade sono al limite della percorribilità; le nubi plumbee corrono e si imbizzarriscono nel cielo. Arriviamo a Calpe, campo base del nostro viaggio, mentre un diluvio rende le strade gonfie d’acqua come torrenti… Pare un incubo. Grattacieli e residences si stagliano contro il cielo grigio e plumbeo. Il primo impatto invita alla fuga. Ci rifugiamo nell’appartamento prenotato. Al sesto piano di un grattacielo immane. Lungo e largo. I proprietari ci mostrano con orgoglio la spiaggia e il panorama sul mare. Bello scorcio fra una fila di grattacieli. Manca solo una fabbrichetta con i suoi altiforni che ricordi Porto Marghera… e il quadro sarebbe completo.

Iniziamo cauti la mattina dopo. Gran pozzanghere e nuvoloni neri. Parcheggiamo nel porto di Calpe. Posto carino a metà fra un porticciolo turistico e di pescatori. Conserva ancora però un’aria di “vero” che subito ci attrae… Avvicinamento su lungomare con lampioni… La selvatichezza qua non esiste. Le barchette all’ormeggio sembrano quelle della Sacchetta di Trieste e il lungomare Barcola in piccolo. Gran giro di gabbiani sopra la testa. Venticello teso e umido. windstopper ben chiuso sul collo. Spagna? Caldo? Mah…

Poi si gira l’angolo e la sud appare in tutta la sua grandezza. Un muro giallo. Erosioni enormi rossastre. Si innalza per 330 metri sopra di me, sopra il mare che si infrange contro la parete con onde lunghe sul lato destro. Spettacolo immenso. Decine di cocai (gabbiani) girano attorno facendo un casino enorme. C’è aria di casa… E nello stesso tempo aria di ignoto. Non sarà facile là in mezzo a quegli strapiombi su vie che sono il nostro limite e forse qualcosa di più. Ma la parete è stupenda. Erosioni e pilastri. Cerchiamo le linee di salita. La roccia sembra ottima e attrae, ammalia come una sirena.

Rinviamo l’attacco al centro della gran parete optando per una via al bordo sinistro. E va bene così. La pioggia ci flagella in discesa. Acqua a catinelle. Del solatio e mite inverno spagnolo non c’è traccia nell’aria. Ma i tiri fatti sono splendidi. La roccia è rugosa, appigliatissima. Le protezioni sono parche e invitano ad un largo uso di dadi, cordini e friends. Meglio così. Molta più soddisfazione che fare passi duri fra uno spit e l’altro.

Il giorno di Natale la “Noche Buena” porta un buco nella perturbazione. Gli strapiombi gialli della sud si aprono sotto le nostre dita. Per la terza volta in tre giorni usciamo in vetta al Peňon. Finalmente in maglietta! Il contrasto fra il giallo degli strapiombi e il verde della discesa. Il blu del mare in cui si riflette il gran sole. E un venticello secco da nord est. Tante analogie con casa, con la bellissima costiera triestina.

Il tempo peggiora di nuovo. La valle di Sella ci offre un’arrampicata sportiva e tanti sguardi sulle pareti attorno. Qua sportivo, classico e classico moderno si fondono in quello che è il centro d’arrampicata più frequentato dalla zona.

Ma ancora piove. L’acqua scende copiosa. Il metereologo della “Sexta” però è sicuro del fatto suo. “Manana tiempo bueno”. Lasciamo Calpe mentre ad oriente il sole indora il mare e il Peňon si riflette nell’acqua chiara, contornato da nuvole rosate. Stessa immagine della rivista che mi ha stregato. Ci attende il Puig Campana un massiccio alto 1400 metri di quota con una parete sud alta fino a 600 metri. Diedro Magicos. Una via dei mitici fratelli Gallego. La più bella della zona. Così recita la guida. Bella e bagnata. L’acqua corre nel diedro. Scoraggiati per quella che sembra una vacanza nordica e non mediterranea ci spostiamo sullo sperone centrale: nove tiri di corda da 50 m. difficoltà basse e roccia ottima. Al pilastro d’uscita la voglia di far fatica è ancora alta. Puntiamo alla vetta. 250 metri di roccette, rovi e massi instabili con un paio di tiri di corda in mezzo. Panorama bellissimo e discesa di quelle che non si fanno due volte nella vita. Capiamo perché i locali escono dalla parete tutti dalla cengia dove terminano le difficoltà. Ritorniamo altre due volte al Puig. Una guglia secondaria, Encantada, e alla fine il Diedros Magicos. Una successione di sei tiri di corda pochissimo protetti su roccia da favola e con una logica impeccabile. Una gran capolavoro dei fratelli Gallego, aperta in due giorni nel novembre del 1981. Il gran tetto che chiude la parte alta del diedro è superabile in artificiale grazie a due cordoni che penzolano da altrettante clessidre. Sono troppo impegnato quando salgo per pensare a come hanno fatto a mettere quei cordoni nei buchi di un soffitto quasi orizzontale. La fessura che porta al tetto è ancora bagnata ed è sprotetta. I friend non fanno buona presa nella fessura svasa e irregolare. Sono sei metri sopra la sosta e acchiappo al volo uno dei cordoni. Il movimento mi stressa alquanto e non mi godo il tiro, finendo per imbottire la fessura soprastante di ogni genere di incastro che mi riesce fare. Alla fine per superare il tettino finale mi trovo senza nulla in cintura. E passo in libera l’ultimo metro, uno strapiombino su prese piccole e piedi in aderenza… Gran emozione alla sosta. Una via così vale da sola il viaggio. Come lo vale la vista di Memen, splendida ragazza cataluna che sale sulle vie semisportive accanto con una grinta e uno stile da invidia…

Ultimo giorno. Il programma prevede ancora una via sul Peňon, la più interessante della vacanza. Forse la più dura. Ma la stanchezza fa pagare il suo tributo: sette giorni di arrampicata continua pesano nelle braccia e soprattutto nella testa. Lasciamo la Gomez Cano per il prossimo viaggio. Sarà un gran stimolo per ritornare in questa bellissima terra ad accarezzare ancora questa roccia eccezionale.

Le pareti di Mascarat sotto cui si passa con la strada statale sono allora un richiamo irresistibile per completare il viaggio con un’altra parete. Ci siamo passati sotto tante volte in questi giorni e le abbiamo rimirate dalla cima del Penon e dalla strada. Le si vede da lontano, sia da sud che da nord, svettare sopra la costa. L’attacco è presso il guard rail blu cobalto che delimita la strada statale. Le auto sibilano vicine, suonano e guardano con occhi increduli questi strani personaggi che col casco in testa e le corde sciolte sul marciapiede si apprestano a salire per la rete paramassi. Siamo in sei su questa piazzola. Quattro ragazzi spagnoli per il Pajaron, una via alla nostra destra e noi, che siamo gli ultimi. Aspettando il nostro turno facciamo stretching sulla ringhiera e quattro chiacchiere con i ragazzi spagnoli. Passato lo zoccolo, degno di posti dalla dubbia fama, il pilastro finale regala un panorama mozzafiato e un arrampicata sublime. La vacanza sta finendo ma tutto attorno lo sguardo spazia su pareti da salire… e già la voglia di tornare pervade cuore e cervello…

C’è ancora il tempo la mattina prima di andare all’aeroporto di dare una sbirciata al Morro de Toix, 1 chilometro di scogliera alta una ventina di metri, strapiombante a pelo d’acqua, su cui corre una via in  traversata verso destra. Il traverso Europa, 26 tiri 6b e A1, 12 ore di arrampicata. Chi sa che qualcuno non voglia pensare di liberarla …….

Hasta y suerte Espana

 

10 gennaio 2008

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PIZZO BADILE PARETE NORD EST VIA CASSIN

BADILE PARETE NORD EST VIA CASSIN. 4-5-6 AGOSTO 2007

La parete nord est del Badile è uno dei miti dell’alpinismo. Quando si è immersi nelle sue placche tutto il mondo attorno scompare……

 

Il meteo è di quelli che non lasciano scampo ad equivoci. O si va e si prova o non si va e si mette una pietra sopra alle voglie presenti e future di alpinismo.

L’idea di cominciare la pensione ancora non ci piace e così dopo mille tentennamenti e cambi di programma alla fine decidiamo di provare. Andiamo a fare una via che è decisamente superiore alle nostre capacità e al nostro allenamento. D’altronde gli anni passano e l’assorbimento di questa “relazione alpinistica triestino valtellinese” è stato lungo e faticoso e si fa decisamente sentire soprattutto nella mia testa. La mancanza di allenamento e soprattutto la mancanza di grandi pareti pesa come un macigno mentre preparo lo zaino per la cassin. Fino all’ultimo cerchiamo un amico con cui dividere gioie e fatiche della parete, Il peso dello zaino e soprattutto il peso di fare 30 tiri di corda da primo su difficoltà che sono al mio limite e su una parete famosa per le placche lisce………

Purtroppo nessuno risponde all’appello. E così decidiamo di andare e basta. In un modo o nell’altro ne verremo fuori. Ragionamento da bocia o da vecchi.

Arriviamo a sasc furà con tutta calma e passiamo il pomeriggio a prendere il sole. Passa il Mazinga con un gruppo eterogeneo e va a bivaccare sotto lo spigolo. Ci sono anche 2 bambini piccoli che il giorno dopo saliranno lo spigolo…..
Al momento di segnare i nomi sul libro del rifugio davanti a noi due ragazzi lombardi, uno della mia età e uno che ha 20 anni di più, segnano cassin sul libro. La giò commenta scaramanticamente che se ce la fa lui allora ce la possiamo fare anche noi. Sarà una gran profezia.

Poco alla volta la salita inizia a prendere la sua forma. Quella forma di assolutezza e affollamento che solo il Badile sa dare.
Decine di persone arrivano, si fermano, ripartono… Tutte con in testa una via sulla nord. E fra tutte arriva pure il Gianni, amico di falesia della Giò, assieme alla Sibilla. Ah la falesia mai finirò di lodarne l’importanza per l’alpinista medio. Cassin pure per loro. Detto fatto. Andremo via assieme.
Certo mai avrei pensato, immaginato, sperato… manco nei sogni più reconditi di bambino. Già fare la Cassin è un sogno. Un mito dell’alpinismo. La parete che di solito schiude il mondo della gran montagna ai ragazzi che si avvicinano all’alpinismo. Per me potrebbe essere il canto del cigno. Ma mai avrei pensato di poterla fare col Gianni. Solo andarci con Cassin stesso sarebbe un sogno più grande…

Ore 4 sveglia e colazione. Si va. Decine di persone e di lucine si muovono sui fianchi della montagna. Dal rifugio, dalle tendine attorno, dai buchi sotto i massoni alla base dello spigolo. Tutti salgono, ognuno col suo passo. Il nostro è un passo lento. Per caso siamo assieme ai 2 ragazzi che hanno preso il posto in rifugio con noi. Molti ci superano. Tanti sono dietro. Il nostro è un passo di chi non vuole sprecare energie e sa che la lotta sarà lunga e dura e non è sicuro di vincere… anche se avere Gianni vicino ti fa sembrare il Badile una montagna umana…

Alla fine siamo gli ultimi da attaccare. E probabilmente i più vecchi sulla parete. Per caso davanti abbiamo Roberto e Giovanni, dietro Gianni e Sibilla. In mezzo la Giò ed io. 3 Giovanni in 3 cordate in fila sul Badile. Il destino manda il suo segno. Faremo la salita assieme come un sol gruppo affiatato. E nessuno da fuori potrebbe immaginare che non ci siamo ancora conosciuti. Cercavamo un amico con cui condividere la parete. Abbiamo trovato un gruppo bellissimo.

Fin dalle prima lunghezze si capisce che il mito non è stato smontato dal tempo. I passi singoli non sono mai duri. Ma l’insieme si. Fino alla grande cengia a quasi metà via conto 9 chiodi di passaggio più 2 incastri rimasti. Alla faccia della via super chiodata e quasi banale che si legge un poco ovunque. Integrare non sempre è possibile. Ci sta tanta aria fra un rinvio e l’altro… inizio ad andare in agitazione
Ore 12 grande cengia. Non veloci ma neppure lenti. Alcune attese per coda ma nulla di preoccupante… Per ora… Tempo per parlare e per conoscersi.. ci sta il sole. Fa caldo.

Ore 14 grande cengia. Alla fine Roberto inizia ad andare. Sono passate 2 ore. La coda si è fatta sentire. Certo bella occasione per parlare in tedesco, inglese, francese, spagnolo e scambiare informazioni su vie e luoghi… ma ci stanno ancora 500 metri di Badile sopra. I tiri più duri…

Il tiro dopo la cengia è il più duro: V/A1 secondo le vecchie relazioni. Ci sono pochissimi chiodi e un paio di friends incastrati. Di artificiale manco l’ombra quindi. Alla faccia della via super chiodata. La sosta in cengia inoltre non ha fatto gran bene. Inizia a fare tardi. Esco dal tiro un pochino provato. Capisco che non la tiro fuori tutta. Un breve consulto e si decide di fare una unica cordata da 6 in modo da scaricare la stanchezza tirando un poco per uno. Inizia il Roberto che è un mito. Alla quarta uscita su roccia dell’anno… Va come un treno. E si prenderà carico di tirare la via fino a dopo il camino. Passaggi bellissimi e molto impegnativi. Un solo trattino facile in mezzo e siamo nel camino. Un budello stretto e massacrante. Roberto lascia lo zaino e tocca a me portarlo su. Faccio il budello con 2 zaini. A me i camini di solito vengono bene e pure qua non me la cavo male pur con un bel nuts formato 40 litri sotto i piedi.

Roberto ha fatto il suo e ormai è completamente cotto. Mancano pochi tiri, ma pure il tempo manca. Sarebbe meglio che vada avanti Gianni. Conosce la via e sicuro è molto superiore alla bisogna. Ma Gianni è indietro con le ragazze. Aspettarlo vuol dire perdere almeno 45 minuti. Cosa che non ci possiamo permettere. Quindi tocca a me. Paura, stanchezza? Voglia di essere altrove? Non si può pensare. Devo salire e pure in fretta. Parto per l’ultimo tiro di V. Fortuna qua qualche chiodo è rimasto dentro. Un tiro, due … prendo coraggio e inizio a vedere la fine. La cresta illuminata dal sole. Improvvisamente cambio marcia. Sento la vetta e avere il Gianni dietro, che so che mi può tirar fuori, mi dà slancio. Non percepisco più la fatica e non penso più alla paura. Inizio ad andare come nei momenti migliori. Esco in cresta illuminato dal sole del tramonto. Il granito rosso sotto le mani è di nuovo caldo. Decine di montagne ovunque. Un momento sublime della mia vita. Corro sugli ultimi tiri dello spigolo come fossi su un prato. Un freddo vento da nord e la luce che svanisce mi fanno tirare fuori guanti, berretto e goretex. E pure la frontale. Ma voglio arrivare in cima prima del buio. Roberto è sfatto, ma è grazie a lui che siamo qua. Giovanni non parla più da tanto che lo faccio correre. Dietro vedo le lucine del Gianni e delle ragazze. Mi fiondo verso la cima. Quando la corda finisce non mi fermo, continuo e trascino tutti sulla cresta finale. Vedo le lucine dei francesi sulla normale 100 metri sotto… Arriveranno al Giannetti alla 4 lasciando una corda rotta in parete che l’indomani gli restituiremo. Ci fiondiamo in bivacco. Metto via le corde e poi guardo l’orologio. Sono le 22 e siamo in movimento da 18 ore. Grazie all’aiuto reciproco siamo tutti e 6 in cima al Badile. Io non sarei mai riuscito a tirare tutta la via, Roberto si, ma non sarebbe mai arrivato in cresta prima di notte, Sibilla aveva paura prima ancora di partire e la prima parola che ha detto l’ha detta ormai in bivacco per l’estasi delle montagne attorno. Per il Gianni questa probabilmente sarà l’ultima Cassin.. ma vederlo così sereno e naturale è stato esaltante quanto la via stessa. La Giò era sempre allegra e tranquilla. Ma lei non fa testo. La sua incoscienza non ha limiti… basta non mandarla mai avanti, Giovanni era la macchietta del gruppo, ad ogni sosta faceva baruffa con la corda. Troppo forte per poterlo descrivere.

La notte sarà stretta, rumorosa e calda. Ma svegliarsi all’alba sulla cima del Badile con sotto il mare di nubi e sopra il cielo terso e in mezzo montagne a perdita d’occhio sono sensazioni che non si possono descrivere.
Il giorno dopo è un’altra storia. La normale con calma nel sole del mattino. Il Mario che sale e ci saluta sulle doppie, poi la foto sulla morena, la prima acqua. La mega pastasciutta dal Mimmo. La birra a Filorera… il recupero dell’auto e poi il Crotto a Chiavenna per una ultima chiacchierata con gli amici conosciuti solo 48 ore prima e con cui abbiamo condiviso una viaggio immenso…..

un viaggio che ormai pensavo non avrei affrontato mai più, nè sul Badile nè altrove….

Quel ricordo dell’arrivo sullo spigolo tutto illuminato dal sole con la parete buia sotto di me. Rimanere da solo per alcuni minuti nel tramonto sullo spigolo nord… sensazioni stupende tanto intense che mi sembra di non essermi mai spostato da quella sosta in quel momento…

E pian piano la voglia di ricominciare ritorna …… e che la pensione arrivi con i tempi del governo….

Partecipanti: espo e giò con sibilla giovanni roberto e GIANNI

by espo

10 agosto 2007

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via de la tere 1 salita

CORSICA

AGUILLES DE BAVELLA PUNTA IOLLA

VIA DE LA TERE PRIMA SALITA

Esco dall’ombra della Punta Alta. Ancora pochi metri nell’erba piegata dalla brezza fresca e tesa del mattino. Illuminato dal sole rivedo il mare, l’orizzonte dorato immerso nelle nebbie mattutine. Sotto a me l’immenso ed irreale vallone di Polischellu. Col du Santo. La guglia che gli da il nome mi sovrasta. Come mi sovrastano le enormi pareti che ho di fronte e che per la prima volta vedo dall’alto. Ancora non lo so ma la giornata che ho davanti diventerà una di quelle che si ricordano con quel misto di soddisfazione, gioia e serenità fra le tante passate fra i monti.

Lascio che la brezza marina asciughi il sudore e inizio il rito della vestizione. Lasciamo gli zaini sotto il Santo e scendiamo nell’ombra della parete ovest. Canalino erboso, difficile, forse la traccia era spostata più a sinistra. Ometto. Seguiamo le cenge che ci portano dentro la parete. Nessuna foto, nessun schizzo. Solo una scarna relazione in francese. Sopra di noi la parete va via verticale. Grandi strapiombi si stagliano contro il cielo.

La cengia muore. In piena parete. Giriamo più volte. Poi alla fine ecco la cruda verità. Siamo a metà parete. Sotto di noi si vedono chiaramente le ghiaie di attacco con i grandi pini. Siamo entrati in parete troppo presto. Scruto la fessura. Nessun segno di passaggio. Come trovare la via? Scendere nuovamente fino alla base? Indietreggiamo sconsolati. Tanta fatica, tanto entusiasmo…….. guardiamo verso l’alto. Sopra di noi strapiombi, contro il cielo strapiombi.

Ma in mezzo, se entriamo in quel camino……. Forse……….

Di colpo una sferzata di energia e di entusiasmo.

Corsica terra selvaggia. Corsica terra d’esplorazione.

Vedo una linea possibile instaurarsi nella mia mente. La vedo incunearsi fra le rosse pieghe del granito. Una cengia tunnel permette di passare la prima fascia strapiombante. Il granito ruvido lascia il posto a un traverso liscio e verticale. Sarà il primo di una serie di duri passaggi. Evito il successivo strapiombo a destra. Il dado esce ma allungandomi indietro lo sostituisco con un buon friend.

Sosta su 2 dadi, molto precari. Vietato cadere. Rimpiango i chiodi che dormono al Col du Bavella. So che basta un passo senza fessure per impedirci di usare protezioni veloci e la mia superbia idiozia di climber moderno lascia il posto alla paura dell’ignoto.

Il camino sopra non sembra duro. Quasi una forra dalle pareti sfuggenti ma aperte. Risolvo un muretto verticale con un micro friend. Seguono due tiri facili. La cengia erbosa sotto gli strapiombi finali. Basta seguirla a sinistra alla base di un bel diedro camino che sbuca diritto in cima. Quasi troppo facile. Alzo la testa. Le sirene cantano sopra di me. Lo strapiombo mi ammalia, mi attira mi seduce. Due tetti uno sopra l’altro. In mezzo una possibile traversata verso placche sfuggenti. Una fessura che taglia il tetto finale. A destra un caminone dall’aspetto dolomitico chiuso da un tetto enorme.

Un cantico irresistibile. Faccio sosta a destra. Alla base di un diedrino fessura. Sopra di me l’ignoto. Il canto delle sirene in formato strapiombante. Una successione di 3 tetti in cui incunearsi. Forse……. Come nel canto di Omero, millenni dopo, a scrutare l’ignoto per soddisfare quella sete inestinguibile che ci fa sentire vivi. Odissea infinita fra le montagne del mondo cercando le tracce della storia. Calliste la più bella e la meno conosciuta. Più mi fai entrare in te più mi innamoro delle tue montagne e della tua natura. Ripenso alle settimane appena passate. Il ritorno dopo tanti anni. Sul Paliri dove avevamo vissuto una vera giornata di scoperta; l’Occhiu, quasi un’impresa allora, solo un piacere immenso ora. Il caldo assurdo di Capu Larghia. Come pazzi a cercare l’acqua che sgorga dalla neve, fine giugno in Corsica. Il freddo, il vento del Cinto, quattro giorni dopo. Una via di roccia col gore, prima d’ora solo in Bianco, solo nella bufera. Freddo da gelare. Fine giugno in Corsica. Ore di solitudine ore di roccia eccezionale di colori e di sapori…………..

Giò arriva in sosta. Chiedo la sua opinione. Scontato arriva l’entusiastico si. Il diedro a sinistra sarà l’eventuale ruota di scorta. Supero la fessura diedro, dura. Traverso a destra. Evito il primo tetto e sosto sotto il secondo, su una cengetta sottile. Da qua la scelta è obbligata. Il caminone dolomitico è scartato. Il tetto che lo chiude senza chiodi e staffe non si fa. Anche il diedrino a sinistra che evita il tetto non è fattibile senza proteggersi con i chiodi. Preferisco l’incognita del traverso che affrontare un passo senza protezioni efficaci. Qua, nel cuore della Corsica. Nessuno sa dove siamo. Siamo ad un ora dal sentiero più vicino. A quattro dall’auto. Nessuna possibilità di soccorso. Affronto la fessura a destra del tetto. Cuore in gola. So che devo essere in grado di ritornare indietro o per lo meno calarmi dall’ultimo rinvio. Un dado, un friend. Sono fra i tetti. Prima esultanza: traversare è possibile. Però……….I tetti sono due. Sotto il grande tettone che sopra a me butta fuori almeno quattro metri c’è ne è un altro più piccolo. Non c’è una cengia, o meglio c’è ma è stretta e monolitica e sta due metri sopra a me, sotto il grande tetto alto. Raggiungerla non sarebbe difficile, ma poi vorrebbe dire strisciarci sopra per quattro, cinque metri, come sulla Lacedelli……senza metterci nulla dentro e con arrivo in placca però, non su una comoda cengia dolomitica. Guardo sotto il tetto. La fessura continua. Metto un friend, non è gran che. Ancora un metro tutto raggomitolato, mano e ginocchia allo stesso livello. Allungo la mano. Tafone!!!! Grande Corsica. Passo un cordino e inizio ad attraversare. I piedi nel vuoto sotto il tetto. Le mani strette su quel buco che quasi abbraccio. Due, tre tafoni e il tetto finisce, mi raggomitolo di nuovo. Un diedrino svaso riporta verso la cengia superiore, fra i due tetti. Sopra si apre una fessura, strapiomba molto ma sembra percorribile. Alla sua base forse si può fare una buona sosta. La mano sinistra insieme alla spalla è incastrata nella fessura. La gamba destra bilancia il peso distesa nel vuoto. Non è quello che comunemente si dice una posizione rilassante. Intuisco una fessura un metro a sinistra. Forse un po’ più in là. Sarà svasa o sarà netta? L’ultimo tafone ormai è a due metri da me. Trovo a tastoni un micro friend. Entra da Dio nella fessura ma neanche a pensare di tirare su la corda, strozzata fra la roccia e la mia pancia. VFC. Mi tengo al friend e caccio la corda dentro. Cambio gamba. Mollo il friend, incastro la mano destra nella fessura e mi allungo. Becco la lama a sinistra. Bella, rugosa e netta. Mi alzo e finalmente dopo 15 metri sono di nuovo sulle gambe. La fessura sovrastante da vicino sembra molto più ostica. Larga e strapiombante. E per fare una buona sosta servirebbero non solo i chiodi ma anche un bonghettino……… Continuo a traversare su una rampa appoggiata. Un tratto facile mi porta ad un terrazzino. Sosta. La placca qua è solcata da una fessura da dita che termina sotto l’ennesimo strapiombo. È dura la partenza dalla sosta. Poi un appiglio, un altro. Sotto lo strapiombo una clessidra e un gran rovescio. Lusso. Non vedo nulla sopra. Roccia strapiombante e sole in faccia. Recupero la forza delle braccia. Sopra il tettino le alternative sono due: o trovo una busta gigante o un piattone assoluto. Non ci sono vie di mezzo su questa roccia. Se trovo la busta sono fuori. Se trovo un piattone sono cavolacci duri perché tutto attorno non ci sta nulla. Butto la destra nel rovescione del tettino. Tiro su le gambe in spaccata su dei rigonfiamenti svasi della roccia. Giro la destra in lolotte. Chiudo gli occhi e lascio cadere la mano sinistra sopra lo strapiombo. La sento precipitare ben oltre il bordo. Maniglia. Siamo fuori!!!!!!!!! Ancora 30 metri sempre più facili. Un diedro, uno strapiombino poi il canalino finale. La vetta. Punta Iolla. Mare a destra, mare a sinistra. In mezzo un dedalo di guglie rosse e tafonate. Solitudine assoluta. Il libricino di vetta data 1997 la salita prima della nostra. Meno di 20 salite in tutto. Scrivo quasi con commozione. Parete ovest via nuova. Massimo e Giò……………………………………

Soddisfazione e rilassamento. Le solite foto. Il panorama. La discesa in mezzo al “giardino” ancora fiorito. Una via nata per caso. Dietro a noi non è rimasto nessun segno. Solo i nostri ricordi che ballano nel lungo rientro, riempiendo le nostre menti e le nostre parole.

Alla fine il grande pino laricio di Bavella ci strizza l’occhio mentre stiamo per raggiungere la strada. 14 ore dopo averlo salutato all’alba il sole finisce il suo ciclo giornaliero e arrossa il granito del passo.

La fortuna di avere salute e tempo per vivere emozioni grandi in mezzo alla natura. Trovare una strada fattibile con pochi mezzi, senza forzature. Idee nate al volo nelle pieghe della natura. La parete ti insegna a vivere, ad amare ad apprezzare quello che puoi fare.

Decidiamo di dedicare la via a una bambina sfortunata che forse non godrà mai il sole da una vetta ma che sta lottando con tutta la sua forza per avere un’esistenza normale.

Quello che conta non è il grado, arido simbolo che sta distruggendo i sogni, ma l’idea. Non è forzare a tutti i costi ma adeguarsi alle possibilità della natura.

In parete non è rimasto nulla.

Pochi segni di magnesio che non ci saranno più quando qualcuno vorrà ricalcare la nostra strada.

Agli eventuali ripetitori abbiamo lasciato solo le nostre emozioni, il nostro amore e l’immensità della Corsica.

3 settembre 2005

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OSPO VIA TRZASKA o SUPERNOVA

e alla fine il giorno è arrivato. ormai cominciavo a non
crederci +. ci sono salite che non riescono. non ci sta un motivo. magari sono
pure facili, vicine, spesso in condizione ma quanto arrivi te….. niente da fare.

supernova era una di queste. non ricordo + ormai quante volte ci sono andato
sotto. nel laghetto carsico pieno di fango. a guardare quel primo chiodo a 5
metri da terra. a tastare l’albero su cui bisognava salire. alla fine l’albero
se l’è portato via una piena. e il chiodo è sempre là…. 5 metri di strapiombo
perennemente infangati.

supernova. l’ultima delle classiche di ospo. l’ultima delle grandi vie aperte
con intenti esplorativi ed alpinistici. la + breve, la + temuta. la + dura in
arrampicata tradizionale. aperta con spit rock fatti in casa, con cordini dentro canne aperte
col martello. con dadi su cui staffare…. con ingegno e spensieratezza di cui
solo a 20 anni si è capaci.

avevo pure fatto il primo tiro, in un giorno di tanto tempo fa. purtroppo o per
fortuna siamo scesi, manco ricordo perchè. forse perchè in 25 metri butta fuori
15.

il + grande strapiombo che ho avuto l’ardire di salire

da allora ………. fino ad oggi. in questa balorda estate in cui il meteo non
dà soddisfazioni. in cui in montagna succede di tutto, in cui ormai ci si è
pure stufati di guardare le previsioni.

l’avvento della arrampicata sportiva e delle alte difficoltà ha portato pure ad
osp vie nuove e un restyling delle vecchie. così supernova ha alcuni fix da
10, ma i passi fatti con i dadi e con 1000 aritfizi sono rimasti free!!

ed è così che vie + dure sono, in arrampicata tradizionale, + facili
……………..

gran caldo sta mane, il sole picchia duro dopo lo strapiombo iniziale.

l’età si fa sentire già all’attacco. staffe e fifì sono rimaste a casa che non sono + di moda …..

ma le possibilità di barare sono infinite.

e il frog in cima alla paleria della tenda fa miracoli. il primo chiodo è preso così. e i 5 metri pieni di fango son risolti con poche risate……

5 tiri. 5 ore. un sole che ci spacca la testa. niente foto, pure quelle rimaste
a casa

ne inventiamo di tutti i colori ma alla fine metto la mano dentro l’anellone
della catena di steber spominov

chiudendo un percorso di scoperta sulla parete di casa iniziato nel 1977, quando gib e
cianeto aprivano la prima via dischiudendo un mondo che oggi è di rilevanza
internazionale, e che allora sognavo nei ritagli dei giornali…….

e quando mi pareva di essere pronto per la pensione mi scopro che forse dandoci
dentro un poco ho ancora qualcosa da dire in montagna……

ma questo sarà solo il futuro a dirlo e la mia voglia di stringere, dimagrire e
SOGNARE

 

21 agosto 2006

 

 

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CIMA GRANDE DI LAVAREDO PARETE NORD VIA DEI KOLIBRIS

questo è il ricordo della prima salita in libera on sight della via dei Kolibris alla grande di Lavaredo. 8 agosto 1992.

La giornata è splendida. Panorami immensi si
immaginano verso settentrione, là dove, oltre i ghiacciai di Glockner e Ven
ediger, si aprono le verdi pianure d’Europa.

Nel
cono d’ombra della Nord non fa freddo; solo la roccia, gialla e strapiombante,
a momenti ricorda l’esposizione e la quota.

Le
soste sono comode, incr
edibilmente comode per questa parete che strapiomba
incessantemente. Si possono allungare le gambe su queste cengette, vere isole
orrizontali nel mare verticale.

Come
in un film tridimensionale giro lo sguardo a destra e a sinistra, spettatore
privilegiato della giornaliera lotta coll’Alpe sulle due grandi vie classiche
della parete. A destra la Comici, a sinistra l’Hasse, piene di ometti
variopinti che sento conversare, imprecare o gioire a seconda del passaggio.

Noi
siamo in mezzo; lenti ma inarrestabili proc
ediamo su questa via che fa parte della storia dell’alpinismo dolomitico.
Storia scritta col sudore e la fatica di chi arrampicava e le polemiche di chi
stava sotto a guardare.

Direttissima.
Una parola che ha segnato un’epoca. Un passaggio sofferto ma obbligato fra il
sesto ed il nono grado, fra l’alpinismo di Comici e Cassin e quello di Messner
e Giordani.

Una
via assurda, inutile, una via da cantiere
edile.

Come è facile parlare quando non si ha la volontà o
la capacità di andare a vedere di persona, di tirare quei chiodi, di stringere
quegli appigli; quando si preferisce sempre guardare indietro e si rifiuta e ci
si oppone all’evoluzione della storia.

No,
non è una via inutile. Non è una successione di chiodi piantati con geometrica
precisione. Anche in mezzo a questi strapiombi gialli la natura ha indicato la
strada per salire e non c’è nessun chiodo nei rari tratti di sesto grado.

E se
nel freddo inverno del 1963 ai primi salitori sono serviti 17 giorni e
tantissimi chiodi, a noi oggi basteranno 11 ore per vedere il sole tramontare
dalla cengia della Grande di Lavaredo. 11 ore in cui Mauro, sospeso sulla punta
delle dita, vincerà con allunghi, spostamenti ed incroci i 500 metri di
strapiombo giallo, nella purezza di stile e nella leggerezza che sempre lo
contraddistinguono.

Kolibris
on sight non è una grande impresa, ma la dimostrazione tangibile delle
possibilità di oggi grazie agli sforzi di ieri.

La
trasgressione dei Sassoni rivitalizzata 30 anni dopo dalla moderna e per altri
versi trasgressiva concezione arrampicatoria della giovane Guida Alpina
triestina Mauro Bole, in arte Bubu.

Via
degli Svizzeri, spigolo dei Scoiattoli,
Paolo VI, esempi di direttissime; tappe di una evoluzione che le pone ora, a
30 anni di distanza, ai vertici del possibile in arrampicata.

Sui
Kolibris Bubu ha superato più di 15 lunghezze di corda su difficoltà costanti
di 7a, con punte di 7b e poi un passo chiavedove le difficoltà, a 300 metri da
terra, sono molto superiori al resto della via.

Io,
m
edio e mediocre
alpinista del mio tempo, seguivo arrancando su quei chiodi fini fini, la cui
sola vista mi faceva desiderare prati verdi e soleggiati, issandomi sulla mia
fida staffa, rumoroso testimone di un sesto grado divenuto ormai storia.

Le
pietre fischiano, sinistre ma lontane, fatte rotolare dalle cordate che finita
la Hasse attraversano la cengia verso destra, 150 metri più in alto. Anche
quelli che hanno attaccato 3 ore dopo di noi sono sulla via del ritorno. Dopo
il tetto le difficoltà calano; posso arrampicare anch’io: 6a, 6b….. ma solo
per pochi metri. In mezzo altri strapiombi, altri chiodi da tirare.

Siamo
soli sulla Nord quando arriviamo in cengia, illuminati dal sole, con tanta voglia
di mare.


 

 

 

 

 

 

 

 

 

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